Brianzecum

aprile 4, 2012

LA PAROLA DELLA CROCE

SPUNTI DALLA MEDITAZIONE PASQUALE DI DORA CASTENETTO

(docente alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale) al Meic di Lecco il 24 marzo 2012 sul versetto 1,18 della Prima lettera ai Corinzi: «Poiché la predicazione della croce è pazzia per quelli che periscono, ma per noi, che veniamo salvati, è la potenza di Dio»

Il mistero della croce  è centrale nella fede cristiana, ma si può correre il rischio di ridurlo a puro simbolo culturale. È necessario prescindere da certe discussioni improprie, come quelle avvenute sull’esposizione del crocefisso nei luoghi pubblici. La croce parla, è un messaggio vivo. È l’icona del modo con cui Dio si dona all’uomo. Ci dice che Gesù è il Salvatore, figlio di Dio. La crocefissione – pena infamante per chi veniva ritenuto maledetto da Dio – è una morte scelta da Gesù, non subita: in questa morte Dio rivela sé stesso. Sembra paradossale, ma il mistero della croce – pur restando un mistero – rivela chi è Dio per noi, come intende farci essere davanti a lui e con lui, pertanto rivela chi siamo noi. Vediamo in concreto come avvenne la morte di Cristo. Dei due delinquenti vicino a lui è bastato che uno dicesse: ricordati di me e la risposta fu l’immediata accoglienza, non una promessa di perdono futuro o condizionato. Dio ama gli uomini incondizionatamente, basta un cenno di adesione: entra non appena lo si lascia entrare.

Meraviglia e incredulità  sono atteggiamenti che possiamo provare: meraviglia per tanta misericordia, incredulità, di contro, per chiedersi se non ci sia una forma diversa dalla croce per esprimere l’amore di Dio per l’uomo. Joseph Ratzinger disse che la croce si presenta “come espressione di quel folle amore di Dio, che si abbandona ad ogni umiliazione pur di redimere l’uomo”. Il tema è sempre quello dell’uomo salvato e di un Dio salvatore. Una certa idea di un dio giustiziere – invalsa in tempi passati – è totalmente sbagliata: il Dio vero è quello che perdona, che salva: è più grande della nostra meschinità. S. Ambrogio ha affermato che se si perdona si ha ragione di credere di essere perdonati; se non si perdona, come osare rivolgersi a lui? Non si può capire la sua misericordia trascendente.

Dio è misericordia.  Questo atteggiamento divino contrapposto a quello umano può essere visto già nel primo testamento, ad es. in passi come il seguente: Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione. Non darò sfogo all’ardore della mia ira, non tornerò a distruggere Efraim, perché sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te e non verrò nella mia ira (Osea 11,8-9). Anche Caino viene protetto da Dio, contrariamente a quanto avrebbe fatto la giustizia umana. La potenza di Dio si manifesta, dunque, non come potere o arbitrio, ma come misericordia e perdono: e questo lo dice il crocefisso. È stata anche un’intuizione di s. Teresa del Bambin Gesù. Entrata nell’ordine delle carmelitane – che allora (fine ‘800) aveva lo scopo di offrirsi vittime alla giustizia di Dio – intuì che Dio è giusto in quanto misericordioso: significa che Dio realizza la sua identità (quindi è giusto con sé stesso) nella misericordia. Pertanto Dio non mostra la sua distanza da noi: piuttosto siamo noi che attribuiamo a Dio una distanza e una giustizia umana. Ma è ideologico partire da noi e attribuire a Dio il punto di vista umano.

La croce è principio di comunione.  Sulla croce è stipulata pienamente l’alleanza tra Dio e l’uomo. Ne consegue che da li nasce ogni possibilità di comunione tra gli uomini. Perché sulla croce Gesù sconfessa l’odio, sconfessa ogni aggressione, sconfessa ogni oppressione. Sconfessa pure la nostra autosufficienza, la pretesa di essere in grado di salvarci grazie ai nostri meriti. Sulla croce Gesù muore per tutti gli uomini: la croce distrugge ogni muro divisorio che vogliamo erigere con chi ha una fede diversa o non ha fede. Ci possiamo chiedere se è possibile condividere la croce. O, prima ancora, se la croce è una proposta credibile. L’uomo è fatto per la felicità, non per la croce. Condividere la croce può sembrare una proposta sconcertante, ma non si è discepoli se non condividendo la croce. Le parole di Gesù in proposito sono inequivocabili: Se uno vuol venire dietro a me, rinunci a se stesso, prenda la sua croce e mi segua (Mt 16,24). Bisogna avere il coraggio di condividere le scelte fondamentali della fede; o, in altre parole, bisogna decidere di essere cristiani. Portare la croce vuol dire assumere lo stile di Gesù.

Rinunciare a sé stessi  cosa vuol dire? Non certo rinnegare il corpo né, tanto meno, la propria personalità. Vuol dire rinnegare l’indocile (rispetto alla legge della carità), l’incredulo che è dentro di noi, per ricondurre tutto in noi alla fede, allo stile di Gesù. Qui si aprono problemi molto profondi: si può chiamare croce il dolore dell’uomo? Perché il dolore innocente? Perché proprio a me? Probabilmente non si trova una risposta se si resta sul piano puramente razionale. Dolore e male appaiono come ostacoli, si cerca di nasconderli, ma sempre riemergono. Il dolore è un enigma per tutti, credenti e non credenti. Possiamo ricordare, ad es., Edith Stein, che disse alla sorella: andiamo a morire per il nostro popolo. Il card. Martini, dopo una visita ad Auschwitz, non fu in grado di fare la solita meditazione dinanzi all’assurdo di quel mistero d’iniquità: non ci sono parole. Ma, aggiunse, guai a chi abbassa la guardia.

Il dolore prende senso dall’amore.  Il libro di Giobbe descrive un atteggiamento forte rispetto al dolore: quello che gli fa dire: Dio ha dato, Dio ha tolto. Ma non sempre l’uomo è così forte, come insegna la stessa morte di Gesù. La quale è una morte per la vita, per la salvezza dell’umanità. Una morte totalmente umana perché l’umano di Gesù è totalmente umano. Solo la fede dà un senso al dolore. Senza titanismi, fatalismi o, peggio, disperazioni. Bonhoeffer ha parlato di resistenza e resa: resa non al dolore ma al mistero di Dio. Questa resa ci dà una resistenza reale che genera speranza e pazienza. La lezione del Crocefisso non ci dà una teoria del dolore, né afferma che il dolore è un valore. Insegna piuttosto che è sbagliato respingere la fede per il dolore. Il dolore, il venerdi santo, prelude alla resurrezione. La Pasqua è questa certezza.

Bibliografia: G. Moioli, La parola della croce, Glossa, Milano 1994

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