Brianzecum

dicembre 12, 2018

L’ITALIA NON C’È

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QUELLO CHE HA SAPUTO FARE LA VECCHIA CASTA A CONFRONTO CON L’ATTUALE INSUSSISTENZA
(di Raniero La Valle) Newsletter n. 125 dell’11 dicembre 2018 notizieda@chiesadituttichiesadeipoveri.it https://mail.google.com/mail/u/0/?tab=wm&pli=1#inbox/FMfcgxvzMBmqpbDWwtkhLMnCbsBZHHXx

MERITI DELLA CASTA. Quando la famigerata “casta” dei politici governava il Paese, l’Italia uscita a pezzi dalla guerra era completamente in mano alla NATO e agli Stati Uniti e vigilata dagli alleati europei più di quanto non lo sia oggi nell’Unione Europea. Eppure l’Italia grazie a uomini come De Gasperi, Mattei, Moro, Fanfani e perfino Andreotti, riuscì a fare una politica estera con alti margini di indipendenza e a modificare gli equilibri politici nel Mediterraneo; Mattei ruppe il monopolio delle “Sette Sorelle” petrolifere che si mangiavano tutti i profitti del petrolio arabo, restituì l’indipendenza all’Iran dello Scià e aprì la stagione del risveglio dei popoli arabi; Fanfani e La Pira (e Lercaro a Bologna) misero in crisi l’omertà nei confronti della guerra americana nel Vietnam e concorsero a liberare la coscienza dei giovani che approdarono al ’68 “antimperialista” e al pacifismo; Moro negoziò con i palestinesi l’immunità dell’Italia dalle operazioni violente irredentiste e terroriste della resistenza palestinese mentre l’Italia, restando in perfetta lealtà con Israele, riconosceva di fatto lo Stato di Palestina e gli faceva aprire un’ambasciata a Roma; Craxi affrontò gli americani a Sigonella in nome della sovranità italiana e del diritto internazionale; Andreotti fece una politica mediterranea di pace giungendo a proporre al collega francese, su sollecitazione di un Convegno internazionale svoltosi a Montecitorio, un ingresso simultaneo di Israele e della Palestina nell’Unione Europea, cosa che avrebbe posto termine a quel disperato e mai più risolto conflitto; e con Berlinguer l’intera cultura politica italiana concepì una conciliazione degli opposti che, con l’eurocomunismo e “il caso italiano”, avrebbe potuto aprire una stagione del tutto nuova nei rapporti mondiali alla caduta del muro di Berlino. Naturalmente l’Italia pagò dei costi, e se ne pagano ancora: le basi militari americane da nord a sud del Paese, i missili nucleari in Sicilia, Gladio, la scellerata partecipazione alla guerra del Golfo e poi a quella jugoslava, e ci fu chi pagò con la vita, Mattei, Moro, vittime sacrificali, e anche Berlinguer percosso (“ictus”) dalla sua passione morale e politica.

IRREALTÀ. Adesso, proprio quando si pretende che sia “prima l’Italia”, l’Italia non c’è. Non c’è tra i firmatari del Trattato dell’ONU per la interdizione delle armi nucleari, non c’è più con l’operazione “Mare nostrum” e ormai neppure con le ONG per salvare i naufraghi nel Mediterraneo, non si è ricordata il 10 dicembre del settantesimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, non c’era a Marrakech quel giorno per la firma del patto mondiale contro la rottamazione e il bruciore della Terra, né si è ricordata dei genocidi in corso, quello dei Rohingya laggiù e dei migranti qui sulle vie di fuga dalla Libia e dagli altri inferni provocati da noi. Né si dica che ciò è a causa del populismo che governa l’Italia. Non è il populismo, che è il modo spregiativo per dire “popolo”, ma l’irrealtà che oggi governa l’Italia e la rappresenta sui media, il popolo non vuole affatto la guerra nucleare né la distruzione della Terra, né lo straripamento delle acque, né i naufraghi ributtati in mare o nelle loro prigioni, né i genocidi comunque camuffati. Ma se il verbo rimesso in auge e veicolato nella cultura comune è di nuovo quello dei ghetti e del razzismo, è facile che dal popolo sgusci qualche mentecatto che svelle le “pietre d’inciampo” incastonate contro l’antisemitismo nelle strade di Roma. Intanto Amnesty International pubblica il suo rapporto 2017-2018 in cui si documentano tutte le violazioni dei diritti umani di cui la Repubblica italiana già nel 2017, governando Gentiloni, si era resa colpevole. La speranza è pertanto che l’Italia ritorni.

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luglio 2, 2018

PERSEGUIRE LA LIBERTÀ INTERIORE

CONTRO RAZZISMO E DISUMANITÀ DILAGANTI È NECESSARIO UN LAVORO EDUCATIVO UNITARIO E PROFONDO
omelia di don Giorgio De Capitani del 1 luglio 2018: sesta dopo pentecoste (Es 3,1-15; 1Cor 2,1-7; Mt 11,27-30); fonte: http://www.dongiorgio.it/01/07/2018/omelie-2018-di-don-giorgio-sesta-dopo-pentecoste

Dio incarica Mosè. Partiamo dal primo brano della Messa. È il racconto di uno dei più famosi episodi dell’Antico Testamento: Dio incarica Mosè di mettersi a capo del popolo ebraico per liberarlo dalla schiavitù egiziana. Anzitutto, diciamo una cosa. Su Mosè ci sono diverse congetture. Alcuni studiosi anche seri mettono in dubbio la sua storicità. Senza arrivare a queste teorie estreme, diciamo comunque che sul personaggio si sono costruite delle leggende, e che dunque andrebbe perlomeno rivisto nella sua storicità, interpretando allegoricamente alcuni elementi del tutto leggendari. D’altronde, non dimentichiamo che non solo i fondatori delle religioni, ma anche i popoli antichi facevano risalire le loro origini a leggende o, diciamo meglio, a elementi mitici, che vanno perciò non eliminati, ma colti nella loro simbologia, ricca di insegnamenti.

Scendere, salire, uscire… Detto questo, vorrei soffermarmi anzitutto su alcuni verbi presenti nel brano: scendere, salire, uscire. Tutto dipende dal come li consideriamo. A prima vista due verbi (scendere e salire) sembrano tra loro in contrasto: inconciliabili. Chi scende, certo non sale. In ogni caso, il verbo “uscire” si collega ad entrambi: si sale anche per uscire, o si scende per uscire. Ma che significa tutto ciò nel contesto biblico? Dio dall’alto dei cieli è sceso in mezzo al suo popolo, per farlo salire verso la terra promessa, e dunque per farlo uscire dall’Egitto, e perciò per liberarlo dalla schiavitù dei faraoni. Così deve fare Mosè. Mosè si era allontanato dal suo popolo, perseguito dalla giustizia egiziana, ma ora deve tornare: deve di nuovo incarnarsi nella realtà concreta di un popolo sofferente, se lo vuole condurre verso la libertà.

Qui c’è un grande insegnamento sempre attuale: occorre scendere accanto alla gente, per farla salire e così condurla verso la libertà. Ho l’impressione che anche coloro che si credono i salvatori della patria solidarizzino così tanto con la gente che non riescono a capire che la loro missione è anzitutto quella di far salire l’intelletto della gente, e non tanto solidarizzare con la loro pancia. Solo così si porta la gente o il popolo o la nazione verso la sua vera liberazione: altrimenti, resterà sempre la voglia delle cipolle d’Egitto. Ma non credo che Mosè abbia colto questo messaggio: si è limitato a condurre fuori dall’Egitto un popolo, lasciandolo ancora interiormente schiavo di se stesso. Eppure, Dio alla richiesta di Mosè sul nome, risponde:

Io sono colui che sono!” Parole che sono state diversamente interpretate dagli studiosi, arrivando a questa conclusione: Dio intendeva dire a Mosè: Io sono con te, ovunque tu sarai. In altre parole: Io, il tuo Dio, il Dio del popolo eletto, non ti abbandonerò mai! Forse Dio non ha dato una definizione da intendere subito in modo del tutto filosofico: il pragmatista Mosè cosa avrebbe capito? Ma non possiamo negare che nelle parole di Dio ci sia qualcosa di veramente profondo, ed è qui che dobbiamo fermarci almeno per un attimo.

Che cos’è la libertà? Dare ad un popolo la possibilità di avere un pezzo di terra tutto suo? Dare al popolo la possibilità di una casa, di un lavoro, di un po’ di pace e di serenità? Ma riducendo così la libertà, che cosa abbiamo ottenuto? Un popolo magari benestante, ma sempre schiavo di se stesso. Non dico che “prima” bisogna parlare di essere, e “poi” di avere. Non dico che “prima” bisogna parlare di realtà spirituali, e “poi” di realtà materiali. Non c’è un prima e un poi nel senso cronologico. Il lavoro educativo da fare è qualcosa di strettamente unitario: si dà terra, casa, lavoro, benessere, e nello stesso tempo, e non dopo, si educa la gente a scendere nel proprio essere interiore, se si vuole farla risalire e uscire da quanto potrebbe poi diventare la sua nuova schiavitù. No, anche noi buonisti cristiani diamo un aiuto di tipo economico ai poveracci, e non li lasciamo a crescere dal punto di vista umano. Quante volte riflettiamo sulle parole di Dio: “Io sono colui che sono!”? Certo, non siamo Dio, ma fino a che punto possiamo dire: “Anch’io sono colui che sono?”, oppure dobbiamo riconoscere che “siamo ciò che abbiamo”?

Il mio giogo è leggero” Sarebbe interessante soffermarci anche sul brano di Paolo, ma, per questione di tempo, passiamo al brano del Vangelo. Mi hanno sempre particolarmente colpito le parole di Gesù, quando dice: «Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, “e troverete ristoro per la vostra vita”. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero». Queste parole sono state diversamente commentate. Qualcuno ha parlato della mitezza di Gesù, della sua umiltà, della sua semplicità, ecc. Ma, sinceramente, non sono mai stato del tutto convinto che Gesù si riferisse a qualche virtù in particolare. Che significa “il mio peso è leggero?” Concordo con chi vede in queste parole la leggerezza dell’essere, in contrapposizione alla pesantezza dell’avere. In altre parole, Cristo ci dice: se voi mi seguirete, sarete liberi da ogni peso inutile, ingombrante, schiavizzante.

Bellezza dell’essere interiore. Altro che bisogna essere dolci di cuore o sdolcinati, altro che essere buonisti da quattro soldi, altro che essere pacifisti senza esporsi mai! L’invito di Cristo è perché riscopriamo la bellezza del nostro essere interiore, là dove scompare ogni ombra di avere, ogni possesso o desiderio di qualcosa di inutile. Più siamo nudi dentro, privi di ogni cosa, più siamo leggeri, liberi, ed è da questa libertà interiore, da questa leggerezza dell’essere che poi scaturisce la nostra libertà anche esteriore: nel nostro modo di essere, di vivere, di confrontarci con le cose e con le persone. Automaticamente smetteremo di essere razzisti, barbari, disumani.

giugno 26, 2018

PSICOLOGIA DELLA LIBERAZIONE

VIENE DALL’AMERICA LATINA IN CONTINUITÀ CON LA TEOLOGIA DELLA LIBERAZIONE E MIRA NON SOLO A INTERPRETARE IL MONDO, MA ANCHE A CAMBIARLO: SERVE ANCHE A NOI, PER LIBERARCI DALLE MENZOGNE CHE CI PROPINANO I MEDIA GIORNO DOPO GIORNO

Recensione di Raniero La Valle al libro: Ignacio Martìn-Barό, Psicologia della liberazione, a cura di Mauro Croce e Felice Di Lernia, con uno scritto di Noam Chomsky, Bordeaux edizioni, 2018.

UNA SCIENZA OLISTICA. Questo libro è in realtà un’operazione culturale volta a inculturare in Italia un sapere di cui non conoscevamo nemmeno il nome: infatti la psicologia della liberazione è un prodotto della cultura che in Italia non c’è mai stato, non è mai stato nominato, e non si è mai avuta né si ha ancora oggi la minima idea che sia necessario, e che anzi senza una psicologia della liberazione il progresso storico si ferma. In questo libro sono raccolti i testi più importanti in cui è racchiuso il pensiero del gesuita spagnolo Ignacio Martìn-Barό, uno spagnolo incardinatosi e anzi immedesimatosi nell’America Latina e ucciso poi insieme ad altri cinque gesuiti, a una inserviente e a sua figlia nella strage perpetrata dagli squadroni della morte nell’Università Centro Americana del Salvador. Le tematiche di questo libro sono inesauribili, vanno dalla povertà all’esclusione, dal lavoro alla salute mentale, dalla violenza alla dipendenza culturale, dalla guerra all’imperialismo, dal sindacalismo alla disoccupazione. E ciò perché la psicologia della liberazione è come un meridiano che incrocia tutti i paralleli, cioè attraversa tutti i problemi della società umana, nella loro portata sociale e politica, nella loro dimensione pubblica, e li affronta dal punto di vista di tutti quelli che hanno bisogno di una liberazione, e quindi dal punto di vista del popolo oppresso, dei popoli poveri, del mondo umiliato e sfruttato. Dunque si tratta in un certo senso di una scienza olistica, che abbraccia tutto e riguarda tutti.

SFRUTTAMENTO E OPPRESSIONE. In questo senso la psicologia della liberazione ha la stessa estensione e lo stesso statuto della teologia della liberazione, da cui nasce e a cui si affianca a partire da quell’evento dirompente della Chiesa latino-americana dopo il Concilio Vaticano II, che fu la conferenza dei vescovi a Medellin. Che cosa la psicologia della liberazione ha in comune con la teologia della liberazione? Lo spiega bene il maggiore esperto del pensiero di Barό, Amalio Blanco, nella sua introduzione: essa parte dagli stessi fatti, cioè da una realtà latino-americana dove la dignità dell’uomo è umiliata; ha lo stesso soggetto, cioè le masse popolari sofferenti; persegue lo stesso obiettivo, cioè liberazione e salvezza; si scontra con gli stessi ostacoli, cioè il potere costituito; fa la stessa scelta, che è quella preferenziale dei poveri, e perciò dei popoli oppressi. E l’intenzione di Barό è di approntare uno strumento teorico, la psicologia della liberazione, il cui scopo, non diversamente dall’intenzione di Marx, non è solo quello di interpretare il mondo, ma di cambiarlo. E bisogna cambiarlo perché la realtà presa in carico dalla psicologia della liberazione è una “realtà marcata dalla disumanità e dall’ingiustizia, dalla conflittualità e dall’alienazione, da una divisione discriminatoria del lavoro, dalla emarginazione, dalla disoccupazione di massa, dallo sfruttamento e dall’oppressione”.

ASSOGGETTAMENTO DEL POVERO. Se questo è il parallelismo tra teologia e psicologia della liberazione, dove sta la loro differenza? La differenza sta in questo: che la teologia della liberazione è una psicologia della liberazione che ha messo in campo la fede. Essa cioè parla di una liberazione in cui Dio è coinvolto, una liberazione che l’uomo persegue con le sue proprie forze, ma nello stesso tempo egli ce l’ha già e la riceve come dono di Dio. Ma se così stanno le cose, se la liberazione è una sola ma nello stesso tempo è l’oggetto di molte discipline, è il frutto di molte conquiste, della politica, della teologia, delle scienze sociali, delle dottrine giuridiche e delle lotte popolari, perché ci vuole anche una psicologia della liberazione, non basta tutto il resto, e non se ne è fatto forse a meno finora? L’intuizione da cui muove Ignacio Martìn-Barό nell’aprire i cantieri della psicologia della liberazione mi pare questa: l’oppressione, il colonialismo, l’assoggettamento da cui liberarsi, cioè tutta la prepotenza che c’è nella storia, non sono solo il frutto di rapporti di forza, di potenza, di ricchezza. Non è solo che il forte opprime il debole, il ricco sfrutta il povero e il padrone calpesta il servo. C’è il fatto che queste cose, prima di darsi nella realtà, sono presenti nella coscienza, nella psiche. Lunghe oppressioni celano uno stato di assuefazione, di acquiescenza, molto spesso si da un’interiorizzazione dell’oppressore nell’oppresso, spesso il ricco diventa il modello del povero perché si fa mediatore del suo desiderio, gli addita le cose da desiderare ma che il povero non può ottenere.

PSICOLOGIA COLLETTIVA. Anche il meccanismo vittimario su cui è fondato il sacrificio si realizza pienamente quando la vittima è consenziente, o perché si riconosce colpevole, o perché è contagiata dall’idea dello scambio, dal pensare che il suo sacrificio è necessario, e servirà per il bene di molti. E questo non riguarda solo i singoli individui: può essere lo stato di coscienza di collettività, di classi, di popoli interi. La sindrome di Stoccolma può essere non solo di un singolo prigioniero, può essere di tutto un popolo, la rassegnazione alla condizione di servo può non essere solo del servo, ma di tutto il popolo soggiogato: altrimenti Dante non avrebbe potuto dire: “Ahi serva Italia, di dolore ostello”. Però per arrivare a capire che la liberazione passa anche attraverso processi psicologici collettivi, e che quindi si dovesse enucleare una psicologia della liberazione, occorreva uscire da un vecchio abito della psicologia, da un suo vecchio pregiudizio, e cioè che la psicologia potesse riguardare solo il singolo individuo, il soggetto individuale, e non i soggetti collettivi; e inoltre che la psicologia avesse a che fare solo con le idee, con le sensazioni, e non con le cose, con le condizioni materiali della vita. Perciò, come dice Barό, per fare una psicologia della liberazione occorre prima di tutto liberare la psicologia.

COSCIENZE IMPRIGIONATE. Ed è appunto quello che Barό ha fatto a partire dall’America Latina. L’America Latina era in una situazione di dipendenza spirituale, prima che politica. Per questo ci voleva una pedagogia degli oppressi; per questo Paulo Freire, il pedagogista brasiliano, scopre che alla popolazione analfabeta non si può neanche insegnare la lingua, se il processo di apprendimento non coincide con un processo di coscientizzazione, cioè di presa di coscienza, e se la parola che viene conquistata, che viene letta, che viene scritta, non diventa anche una parola di liberazione. Il contadino non può imparare a scrivere la parola “campo” se non sa che il campo non è solo quello in cui fiorisce il grano, ma è anche quello su cui dura la sua fatica, sfruttato dal padrone. Del resto non c’è neanche bisogno di andare in America Latina; don Lorenzo Milani lo aveva capito a Barbiana, e i suoi ragazzi a cui non poteva dare né oro né argento dava la parola, consegnava la parola, perché con quella conquistassero dignità e potere. E allora questo è il senso della psicologia della liberazione, di analizzare i meccanismi che imprigionano le coscienze, di scoprire e sciogliere le catene che non sono solo nelle strutture sociali, strutture di peccato, ma sono nella cultura comune, sono nella coscienza collettiva, sono il lascito di incrostazioni secolari; e dunque agire per creare le condizioni interiori, culturali, psichiche, per rompere le catene.

LOTTA DI CLASSE. Che cos’era del resto la coscienza di classe a cui si faceva appello nel Novecento per attivare le lotte operaie o addirittura per fare del movimento operaio il soggetto di una rivoluzione? Non si chiamava psicologia della liberazione o psicologia della rivoluzione, si chiamava lotta di classe, ma di fatto di questo si trattava. Fondare pertanto un pensiero esplicitamente intitolato alla psicologia della liberazione, significa dare sistematicità e strumenti cognitivi e politici per creare nella coscienza collettiva le condizioni della liberazione e perciò della rivoluzione. Questo mi pare il senso di questo libro e del nuovo sapere che fonda. Ma a questo punto si dovrebbe aprire un altro discorso per mostrare come tutto questo non riguardi solo la situazione dell’America Latina o di altri popoli oppressi, ma riguardi anche l’Italia. E vorrei segnalare almeno due profili in cui i problemi sono esattamente gli stessi.

BASTONATA CULTURALE. Il primo è quello che Martìn-Barό chiama la “bastonata culturale dei media”, dei mezzi di comunicazione di massa. Noi sappiamo che la conoscenza, e anche l’informazione, sono una costruzione sociale. Ebbene, noi abbiamo un sistema informativo, giornali e televisioni, che sia pure in molteplici forme, veicolano un pensiero unico, da Repubblica all’Espresso, da LA7 a Mediaset, da Mentana a Mieli, dalla Gruber a Sgarbi, per non parlare dell’eterna corte dei soliti noti che interloquiscono su tutto da una televisione all’altra. Scrive in proposito Barό che “i nostri Paesi vivono sottomessi alla menzogna di un’opinione dominante che nega, ignora o maschera aspetti essenziali della realtà. ‘La bastonata culturale’ che giorno dopo giorno si propina ai nostri popoli attraverso i mezzi di comunicazione di massa costituisce una cornice di riferimento” nella quale difficilmente potrà trovare riscontro “l’esperienza quotidiana della maggioranza delle persone soprattutto dei settori popolari. Si va conformando così un falso senso comune ingannevole e alienante propizio al mantenimento delle strutture di sfruttamento e degli atteggiamenti conformisti”. Per rendersene conto basta vedere come è stata demonizzata la nascita dell’attuale governo e come è stata presentata anche all’estero la vicenda dell’Aquarius, come se l’Italia stesse aprendo i forni crematori per bruciarvi l’intera razza dei migranti.

LIBERAZIONE DELLA FEDE. Il secondo profilo in cui le situazioni sono identiche anche da noi è quello che riguarda il blocco che vorrebbe impedire alla fede di coinvolgersi nel processo di liberazione. È questo blocco, è questo imprigionare la fede nella sfera privata e alienarla nel culto che ha voluto rimuovere la teologia della liberazione in America Latina. Essa ha voluto superare il dualismo, rivelatosi straordinariamente perverso – come scrive Amalio Blanco – tra la storia della salvezza e la storia del mondo, tra il disegno di Dio e la lotta di liberazione degli uomini, tra un rassegnato e indegno “qui ed ora” e un felice “dopo”. La storia è solo una, come dice Leonardo Boff, “è una storia di liberazione o è una soria di oppressione”. Questa liberazione della fede, che è la lezione che ci viene dall’America Latina, corrisponde del resto all’intera tradizione cristiana. Ma anche qui da noi ci si scontra con gli stessi ostacoli. Papa Francesco è combattuto come eretico, non perché vuole dare la comunione ai divorziati, ma perché ha messo in questione il sistema politico che scarta, l’economia che uccide e la globalizzazione dell’indifferenza. E per passare ad esperienze più dirette, noi siamo stati duramente contestati quando per difendere la Costituzione attaccata da Renzi abbiamo messo in campo i “cattolici del NO”; non dovevamo farlo, ci è stato detto, perché sarebbe integrismo mischiare la Costituzione con la fede; e anche adesso le lettere che scriviamo dal sito Chiesa di tutti Chiesa dei poveri sono attaccate anche da cattolici che si credono progressisti perché, mentre il mondo brucia e l’Italia è a rischio, osano occuparsi di politica, mettere i piedi nella polvere e scottarsi le dita con il fuoco. Segno che anche noi abbiamo bisogno di una psicologia liberata; il che vuol dire che per liberare gli altri, prima di tutto dobbiamo liberare noi stessi.

 

marzo 28, 2016

QUEL CHE RESTA DELLA PAROLA “EDUCAZIONE”

LA DIMENSIONE GENERATIVA DEL DESIDERIO SEMPRE PIÙ LONTANA DAI NOSTRI RAGAZZI

di Massimo Recalcati, La Repubblica del 27-3-2016, pag.54

Istruzione forzata. È sempre esistita una corrente della pedagogia che, a diverso titolo, ha preteso di liberarsi dell’educazione considerata come un vero e proprio tabù: le vite dei figli traggono più danno che benefici dall’educazione, la quale non sarebbe altro che una museruola messa da genitori paranoici sulla legittima voglia di libertà dei loro figli. Tra tutti i riferimenti possibili possiamo pensare al recente lavoro di Peter Gray dal titolo, che è già, come si può intendere facilmente, tutto un programma: Lasciateli giocare (Einaudi). La tesi di questo libro è quella che bisogna restituire ai nostri figli la loro autonomia che una concezione aridamente disciplinare della scuola gli ha sottratto. Quella che l’autore definisce “istruzione forzata” appare come una macchina repressiva tale da spegnere la creatività nel nome di una esigenza di controllo e di disciplinamento coatto che proviene dal mondo degli adulti.

Il figlio del desiderio. Questa rappresentazione della problematica dell’educazione risente di una ideologia libertaria che misconosce la funzione della differenza simbolica tra le generazioni e il ruolo essenziale degli adulti giocato nel processo di formazione. Si tratta di una vera e propria “mutazione antropologica” che è stata descritta con efficacia da Marcel Gauchet in un bel libro titolato Il figlio del desiderio (Vita e pensiero). Riassumo sinteticamente il suo ragionamento: se c’è stato un tempo dove l’educazione aveva il compito di liberare il soggetto dalla sua infanzia, oggi si tende invece a concepire l’infanzia come un tempo al quale si vorrebbe essere eternamente fedeli, come una sorta di “ideale del sé” puro e incontaminato da tutti quei condizionamenti culturali e sociali che rischiano di corrompere la sua affermazione. Non si tratta più di educare il bambino alla vita adulta ma di liberare il bambino dalla vita degli adulti perché la vita adulta non è una vita, ma solo la sua falsificazione morale.

Capovolgimento. Nessun tempo come il nostro ha mai esaltato così la centralità del bambino nella vita della famiglia. Tutto pare capovolgersi: non sono più i bambini che si piegano alle leggi della famiglia, ma sono le famiglie che devono piegarsi alle leggi (capricciose) dei bambini. Nanni Moretti ne fornì un esempio esilarante in Caro diario: in una piccola isola delle Eolie i bambini diventano i padroni anarchici della famiglia obbligando tutti gli adulti al telefono a prodigarsi in improbabili imitazioni di animali per poter ottenere il permesso di parlare coi loro genitori. Il compito dell’educazione viene aggirato nel nome della felicità del bambino che solitamente corrisponde a fargli fare tutto quello che vuole: il soddisfacimento immediato non è solo un comandamento del discorso sociale, ma attraversa anche le famiglie sempre più in difficoltà a fare esistere il senso del limite e del differimento della soddisfazione. Non è forse questa la nuova Legge che governa le nostre vite? Lo spirito del mercato non esige forse la realizzazione del massimo profitto in tempi sempre più brevi?

Desiderio e limite. Gli esiti di questo processo si possono riassumere con una difficoltà crescente dei nostri figli di accedere alla dimensione generativa del desiderio poiché la condizione di questo accesso è data dall’incontro con il trauma virtuoso del limite. Solo se la vita riconosce che non tutto è possibile può fare esistere il desiderio come una possibilità autenticamente generativa. Altrimenti il desiderio si eclissa soffocato dalla marea montante della soddisfazione immediata dei bisogni. È un problema cruciale del nostro tempo. L’elevazione del bambino a nuovo idolo di fronte al quale, al fine di ottenere la sua benevolenza, i genitori si genuflettono, è un effetto di questa erosione più diffusa del discorso educativo. Nella pedagogia falsamente libertaria che oscura il trauma benefico del limite come condizione per il potenziamento del desiderio, l’educazione stessa è diventata un tabù arcaico dal quale liberarsi, una parola insopportabile che nasconde e giustifica subdolamente il sadismo gratuito degli adulti verso l’innocenza dei figli. In realtà, questa dismissione del concetto di educazione è un modo con il quale gli adulti – che, come ricorda Lacan, sono i veri bambini – tendono a disfarsi del peso della loro responsabilità di contribuire a formare la vita del figlio. Ne è una prova il sospetto coi quali molti genitori osservano gli insegnanti che si permettono di giudicare negativamente i loro figli o di sottoporli a provvedimenti disciplinari.

Al centro del mondo. Dando per scontato il fatto che non esistono genitori ideali, o, che, come sentenziava Freud, il mestiere del genitore è impossibile, cioè è impossibile per un genitore non sbagliare, questo non significa affatto disertare la responsabilità di assumere delle decisioni, di non farsi dettare la Legge dai propri figli. Non si tratta per i genitori di proporsi come modelli educativi infallibili – niente di peggio per un figlio che avere un padre o una madre che si offrono come misura ideale della vita – ma di fare sentire che esiste sempre un mondo al di là di quello incarnato dell’esistenza del figlio, che l’esistenza di un figlio non può esaurire l’esistenza del mondo. In un recente colloquio clinico con una famiglia in difficoltà di fronte ad un bambino che ha progressivamente cannibalizzato le loro vite mostrando di non aver alcun rispetto per il senso del limite, il padre, per definirlo, ha usato questa espressione eloquente: «Lui pensa di essere il centro del mondo». Aggiungendo però subito dopo, senza riuscire a trattenere una certa soddisfazione: «Lui non sa quanto per noi questo sia assolutamente vero».

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